lunedì 30 dicembre 2013

300 -Il fumetto di guerra secondo Frank Miller parte 1

Questa è la versione riveduta, aggiornata e corretta di un articolo uscito originariamente sulla fanzine “Clark’s Bar” oltre dieci anni fa.


300: il fumetto di guerra
visto da Frank Miller


UNA FINESTRA SULL’ALTRO
Gli Stati Uniti non sono l’Europa.
Sono i figli, forse i nipoti degli europei, e spesso non hanno un contatto diretto, una percezione, un interesse per i cardini della storia europea che non hanno avuto diretta influenza sulla nascita della Grande Nazione.
Ad esempio il loro ordinamento scolastico è zeppo di "Storia degli Stati Uniti"; nel nostro la storia tenta sempre una visione tutto sommato europea e poi mondiale, e solo di rado strettamente nazionale: un’impostazione nata dalla visione delle singole nazionalità europee come eredi del mondo romano.
E' quindi sempre interessante vedere autori americani confrontarsi con la storia, le leggende e i miti classici greci e romani: sono argomenti alla base della cosiddetta "cultura occidentale", ma che in realtà sembrano marginali rispetto al sostrato anglosassone e comunque germanico che permea la cultura statunitense. Un’interpretazione americana di questa storia, di questi miti è dunque una finestra aperta su come un “quasi-estraneo” veda le nostre radici.
Ma una finestra ha sempre due sensi: questa consente a noi europei di verificare quanto sia profonda l’infiltrazione di quell’idea chiamata America in campi che dovrebbero essere separati da quell’idea stessa.

Una delle opere in questo senso più significative è l'interpretazione della battaglia delle Termopili data da Frank Miller nel 1998 con 300, poi ripresa da un film di Zack Snyder del 2007 [1].
Frank Miller in versione Leonard Cohen
Miller è stato uno dei più grandi autori del fumetto made in USA degli anni ’80 e ’90. Nella fase iniziale della sua carriera ha dato un contributo fondamentale all’innovazione grafica e testuale del fumetto superoistico USA (Dark Knight Returns, Daredevil: Love and War, Elektra Assassin e Daredevil: Born Again bastino come indiscutibili esempi); successivamente si è (in parte) staccato dal genere, diventando una delle colonne di quel nuovo fumetto americano che, dalla fine degli anni '80, ha invaso i generi narrativi più disparati (si vedano la saga di Sin City o di Give me liberty).
In tutta la sua carriera Miller non si è mai tirato indietro dalla strada della ricerca di nuove forme di espressione e di narrazione, dimostrando una curiosità verso stilemi provenienti dal Giappone (Lone Wolf and Cub di Koike e Kojima in primis) o dall’Europa (Toppi).
Questa vena non si è fermata neppure se i suoi esiti più recenti sono stati oggetto di contestazione: si veda l’infinita polemica attorno ad Holy Terror o, per altre ragioni, sul suo pieno “debutto” alla regia cinematografica con The Spirit [2].

TERMOPILI 480 a.C.: LA STORIA COME VENNE NARRATA DAI GRECI.
In 300 Miller narra, con leggere deformazioni, una delle pagine più gloriose della storia greca: nel 480 a.C.
Serse, Gran Re dei Persiani, aveva attaccato la Grecia per vendicare la sconfitta di Maratona subita dieci anni prima dal padre Dario; aveva con sé un esercito che secondo gli storici greci superava il milione di persone, e una gigantesca flotta di appoggio. Contro di lui c’era una lega delle poleis Elleniche: un esercito molto inferiore in numero, fornito da città divise da lotte secolari e neppure troppo solidali contro il nemico esterno [3].
Il peso di coordinare la resistenza era affidato via terra agli Spartani, le perfette macchine da guerra dell'antichità, e sul mare alla flotta Ateniese. Ma la lotta appariva ai più senza speranza.
Inizialmente i Greci, vista la sproporzione delle forze, impostarono una strategia che prevedeva la creazione di due linee di difesa, una terrestre e una marittima. La prima si attestava appunto alle Termopili, l’unico e stretto passo di accesso dalla Tessaglia alla Beozia ed all’Attica; la seconda era marittima, presso il vicino Capo Artemisio [4]. L’intenzione non era quella di sconfiggere sul campo gli asiatici, cosa ritenuta improbabile, ma di bloccarli e logorarli; si voleva impedire la distruzione della Grecia fino a che il Gran Re si fosse stancato di un’impresa divenuta troppo dispendiosa.
Il piano inizialmente sembrò funzionare alla perfezione: i Greci, guidati dagli Spartani del re Leonida, fermarono via terra i nemici, la flotta della coalizione fece il suo dovere. Ma grazie al tradimento di un greco i Persiani scoprirono una via che aggirava le Termopili e consentiva agli asiatici di prendere alle spalle gli elleni: l'esercito greco sarebbe stato preso su due fronti e sterminato, grazie al preponderante numero dei nemici. A questo punto, per consentire una ritirata ordinata del resto dell’armata verso una nuova linea di resistenza sull’Istmo di Corinto, gli Spartani rimasero sul posto a farsi massacrare, seguendo la loro inflessibile legge di non ritirarsi mai [5].
Il sacrificio dei trecento spartani di Leonida, tutti uccisi senza pietà dai Persiani, rimase nella memoria greca come uno degli atti più eroici mai compiuti. La strage consentì di ritardare l'avanzata persiana abbastanza da consentire la riorganizzazione della flotta e dell'esercito ellenico: le successive vittorie di Salamina e di Platea, con le quali il pericolo persiano tramontò definitivamente, non sarebbero state possibili senza gli Spartani morti alle Termopili.
Si può forse ipotizzare che senza il loro sacrificio la civiltà greca sarebbe stata assoggettata dai Persiani, e la storia e la cultura del mondo occidentale sarebbero state ben diverse.

DA STORIA A PARADIGMA DEL FUMETTO DI GUERRA.
La battaglia delle Termopili fu una di quelle sconfitte che, ai fini della propaganda, valgono più di mille vittorie: per restare alla storia americana vi dice niente Alamo?
In quello scontro si mescolarono eroismo, abnegazione, il sacrificio dei pochi per la vita dei molti. Sulla battaglia nacque un mito che era ben vivo presso gli stessi greci. Non mancarono le frasi famose: un greco disse a Leonida, re di Sparta, che le frecce persiane sarebbero state talmente numerose da oscurare il sole; al che Leonida rispose solo: “Meglio, così combatteremo all’ombra!”
La battaglia divenne così un modello per l’epica bellica. Una Roncisvalle con il crisma della storicità accertata.

In epoca moderna le Termopili sono state fonte di ispirazione per film e fumetti [6], poiché quest'episodio è forse la quintessenza dell'avventura bellica di ogni tempo: oltre agli elementi già detti, la solidarietà di corpo, la devozione delle truppe al comandante e del comandante ai suoi uomini, il sacrificio in nome di ideali e del bene dei più… tutti elementi che si ritrovano in questa vicenda e in tanti film di guerra.

Frank Miller prende tutti questi spunti e li ripropone, a volte piegando la verità storica al suo fine artistico. Il suo fine è mostrare uomini avvezzi solo alla guerra nel momento cruciale in cui dovranno dimostrare di non essere semplici parassiti dei lavoratori civili, ma elementi indispensabili per la sopravvivenza dei valori e delle vite dei loro concittadini.

Un episodio ci sembra particolarmente significativo: l’incontro tra gli Spartani e i loro alleati Arcadi.
Alle proteste del capo degli alleati arcadi, giunti più numerosi degli Spartani, re Leonida replica che i trecento Spartani accorsi alle Termopili erano sì pochi di numero, ma erano veri guerrieri, nati, allevati e cresciuti solo per quel momento; gli arcadi, più numerosi, non erano veri guerrieri, ma contadini, mercanti, marinai, effeminati: uomini sottratti alle loro vere attività e prestati alla guerra. E orgogliosamente ripeterà la stessa frase anche davanti al Gran Re Persiano.
Fra le righe di queste frasi (Miller lo esplicita in altri punti della narrazione), si comprende per i trecento ci sarà la fine sicura, per loro non ci sarà ritirata: gli Spartani sono guerrieri, vivono in attesa della guerra (non per la guerra, tuttavia), non hanno null’altro in cui trovare ragione di vita. Gli altri potranno ritirarsi, se sconfitti, addirittura sottomettersi e continuare a fare ciò che facevano quotidianamente: gli Spartani no, ed è per questo che, al di là di ragioni strategiche e di opportunità, non si ritireranno.

In più punti della narrazione il Leonida milleriano ha ben chiaro che la spedizione si risolverà in un  disastro. E procede cosciente verso questa direzione.
La Legge di Licurgo, l’imperativo morale di Sparta è quasi nel DNA dei guerrieri: ecco la molla che spinge tutti ad affrontare il pericolo certi della morte, solo per essere coerenti con sé stessi.
La Legge che regola la vita di ciascuno Spartano dalla nascita alla morte, la vera Legge uguale per tutti gli Spartiati (ovvero i cittadini Spartani con pieni diritti). I guerrieri sono gli “Omoioi” ovvero gli “uguali”, poiché tra loro non doveva esserci differenza di ricchezza; condividevano la stessa vita: da sei a sessant’anni sotto le armi, pasti in comune, dormitori in comune, terra divisa in parti eguali tra loro, figli affidati allo stato e subito uccisi se nati inadatti alla vita militare.
Storicamente a Sparta non c’era (almeno all’epoca) la ricchezza che potesse differenziare gli Spartiati tra loro: le uniche monete riconosciute erano enormi dischi di ferro, perché il denaro non contava a Sparta. Lo Spartano nasceva e moriva membro della falange spartana, senza differenze tra il re e il semplice soldato. Gli Spartani combattevano per la Legge, per il proprio mondo, perché la loro esistenza non cambiasse. Perché loro e i loro figli potessero continuare ad essere guerrieri, in modo da tenere sottomessi gli schiavi che lavoravano per loro, consentendo agli Spartiati di essere guerrieri. Un circolo chiuso, immutabile, da difendere perché le alternative avrebbero sancito la fine di Sparta così com’era agli occhi dei 300.
La realtà di Sparta era l’unica scelta accettabile.

I trecento Spartiati sono trecento corpi ed una mente sola. Miller è straordinario nelle prime scene a mostrarci il gruppo in marcia, a far parlare il narratore collettivo nelle didascalie usando il "Noi", perché il singolo non esiste.
I Trecento sono un’unità, ce lo dimostra l’eccezione: il deforme Efialte è respinto da Leonida non perché è un freak, ma perché tale malformazione non lo rende in grado di inserirsi in quella macchina perfetta che è la falange oplitica.
    "Noi combattiamo come una singola, impenetrabile unità. Questa è la sorgente della nostra forza. Ciascun Spartano protegge l'uomo alla sua sinistra. Dalla coscia al collo. Con il suo scudo. Un singolo punto debole... e la falange si frantuma". (Leonida)
L'elmo corinzio adottato dagli Spartani e da tutti i greci, impedisce al guerriero la visione laterale (Miller ce ne da un esempio nel quinto albo), consentendo di vedere solo davanti a sé e lasciando ciechi i lati, e quindi il guerriero deve affidarsi alla presenza del compagno che gli copre il fianco. Negli scontri oplitici non vince il singolo, il combattimento corpo a corpo è pressoché bandito: vince il gruppo, l'unità, chi ha protetto il compagno a fianco e da lui è stato protetto.
Nella narrazione milleriana dal gruppo emergono alcune figure (il capitano, il narratore, il novellino), ma sono solo i rappresentanti di quelli come loro nel gruppo, sono più esempi che vere personalità, hanno le loro funzioni all'interno e a servizio del gruppo: anche loro sono personaggi-tipo delle storie di guerra.
E se vogliamo anche Leonida si stacca solo perché è il re, figlio di re: l'educazione è stata uguale a quella dei suoi compagni, mangia con loro, marcia con loro, vive come loro, muore come loro. La guerra appiattisce le differenze sociali (peraltro tendenzialmente inesistenti a Sparta, il re aveva lo stesso censo degli altri), e Leonida si distingue perché è il portavoce più che il capo.
Un portavoce che non ascolta gli altri, perché sa che gli altri la pensano esattamente come lui, coem dimostra l’episodio finale di Leonida davanti a Serse con l’intervento di Stelios.

Di contro i "barbari", i Persiani: un’antica civiltà splendida ma decadente. I perfetti nemici per una storia di guerra.
Serse è coperto di gioielli (i fan del piercing lo accoglierebbero come uno di loro, visto il numero di anelli sul suo viso), viaggia su carri coperti d'oro e che ricordano il trionfo di Cleopatra nell’omonimo film, parla tramite intermediari, corrompe. Quando si trova in battaglia è solo per assistere, non è la punta del cuneo come Leonida. Fisicamente sembra un ragazzo: Miller sembra suggerire che tutta l’Asia si è mossa per il capriccio di un bimbo.
I Persiani vinceranno alle Termopili perché sono superiori: come in tante storie di guerra, possono prevalere sui “buoni” solo grazie al tradimento del deforme Efialte, uno Spartano respinto dai suoi Questi serve a darci un altro luogo comune della vicenda bellica, quello del tragedia del traditore. Non sembra trattarsi di un malvagio, ma piuttosto di un deluso che non è nel gruppo degli eroi perché non può esserci, e soffre di questa esclusione. Efialte è cresciuto solo, nel sogno di entrare nella falange, e agisce come un "solitario": gli spartani veri non tradiscono i compagni perché non saprebbero nemmeno pensarlo, non più di tradire sé stessi. Verso Efialte il re non ha rabbia, solo pena.

Per rendere la sua narrazione un paradigma, Miller deforma alcuni dati storici, piegandoli per fini esemplari o drammatici.
Innanzitutto gli efori: da magistratura annuale formata da anziani Spartiati e destinata al governo della città, gli efori vengono trasformati da Miller in una congrega di avidi sacerdoti; essi, grazie a un’interpretazione formalistica e deformata della Legge di Licurgo tengono sotto controllo anche re Leonida; corrotti dall’oro persiano, cercheranno di ritardare la partenza del re con la scusa di una festa religiosa.
Qui Miller mischia le carte e gli episodi storici: in realtà il potere del re era ben al di sotto di quello degli Efori; essi non erano sacerdoti più di quanto non lo fosse ciascun magistrato di una qualsiasi città greca. Quanto all’episodio della marcia rinviata per scrupoli religiosi, essa non risale alla guerra contro Serse ma a quella contro Dario, avvenuta dieci anni prima: e allora gli Spartani non portarono davvero aiuto agli Ateniesi, non per invidia né per paura, ma solo perché avevano avuto un oracolo sfavorevole.
Tutta la faccenda degli efori serve a Miller per mostrarci come la scelta di Leonida sia dettata da un dovere interiore che supera anche la devozione religiosa e gli aspetti più formali della Legge; se volessimo osare l’ipotesi dell’inferenza di un autore classico, sembra quasi il ripetersi del motivo della scelta solitaria (e con esito funesto) dell’eroe nelle tragedie Sofocle.


Miller fa gettare da Leonida in un pozzo gli ambasciatori persiani, a causa della loro arrogante proposta di resa. Questo trattamento riservato agli ambasciatori persiani è naturalmente falso: nessun sovrano greco avrebbe sfidato l’ira di Zeus protettore degli stranieri; e l’ambasciata andò dagli efori, veri detentori del potere, e non dai due re… e gli efori rifiutarono la proposta di Serse. L’episodio serve ancora una volta per mostrarci la fredda ira (ma è davvero ira o semplice comportamento automatico?) del sovrano: Leonida è l’eroe che non può accettare imposizioni da stranieri presuntuosi. Insieme a questo, ecco la punizione per l’arroganza di chi crede che nulla lon possa toccare, solo perché è protetto da giuramenti ipocriti e da un potere lontano che si crede invincibile.

Miller si diverte, in realtà, a narrare una storia di guerra del quinto secolo avanti Cristo con la sensibilità di un uomo degli anni ’90, filtrata dagli stilemi della guerra fredda.
Mai in tutta la storia c’è il dubbio di dove si trovi la verità, il “bene”; atti dal nostro punto di vista orribili e feroci trovano la loro giustificazione: lo sterminio dei bimbi nati deformi; la dura educazione; il totalitarismo di uno stato spartano che informa tutta la vita dei suoi cittadini, omologandoli ed eliminando quasi il pensiero indipendente; l’uccisione degli ambasciatori; l’uccisione dei feriti persiani a sangue freddo, mentre con umorismo nero Leonida dice che bisogna comportarsi civilmente con i nemici… Miller è abile nel mostrarceli “normali” e “necessari”.
Necessari, perché chi deve fare le grandi scelte deve essere pronto ai massimi sacrifici. Miller sa che in gran parte della Grecia le cose non andavano così, nel suo stereotipare non arriva a descriverci una sorta di Età Hyboriana nel cuore del Mediterraneo: all’ambasciatore persiano che, cadendo nel pozzo, urla che “Questa è blasfemia! Questa è follia!”, Leonida, nell’atto di dare il calcio che farà precipitare l’asiatico, dice “Questa è Sparta.”

I buoni sono i buoni, i cattivi sono i cattivi. E’ un mondo di bianchi e neri (il nero invade le tavole, opponendosi ai colori sfumati con la sua massa piena): gli efori traditori non hanno altra motivazione se non l’avidità; i persiani sono solo carne da macello al servizio di dignitari spietati e schiavisti; sopra di essi domina un bimbo crudele cresciuto tra agi e lussi, carico d’oro ed incapace di capire altro che non sia la sua superbia.
I buoni sono buoni fino in fondo, qualsiasi cosa facciano, perché lottano per  valori positivi (la libertà, la patria lontana, i cari che li aspettano a casa), mentre i nemici lottano solo per la sopraffazione.

Come già accennato, sembra sfuggire a questa classificazione solo Efialte, traditore perché respinto dai suoi; Miller apparentemente abbozza un approfondimento psicologico, apparentemente giustifica le sue azioni, apparentemente vuol mostrare come un grottesco aspetto fisico possa condizionare le scelte.
Ma Efialte non è Quasimodo: scavando si rivela niente più che un tipo, come tutti gli altri protagonisti di questa storia. Efialte è il tipo del traditore divenuto tale perché si ritiene ingiustamente escluso, offeso, tenuto da parte: Leonida lo compiange dicendo che se le cose fossero state diverse…  ma è solo un istante, non più di quanto sia necessario, perché Efialte è dal punto di vista di Sparta inutile per la guerra, e quindi inutile del tutto. Eun guerriero non deve rimpiangere più del minimo necessario le cose inutili.

Si possono rileggere decine di episodi di storie di guerra o anche qualche classico western di Tex, e scoprire tanti personaggi (o meglio tipi) che come Efialte tradiscono non perché lo vogliano davvero, ma perché inseriti in un meccanismo che non capiscono. Fanno il male solo perché raggirati dai veri cattivi, in realtà tradiscono solo per essere accettati da chi li ha respinti, all’ultimo si pentono… [il modello occidentale è Giuda Iscariota, specie nella versione che ritroviamo nel musical Jesus Christ Superstar].
Ed anche Efialte, davanti a Leonida che sta per cadere, lo supplicherà di arrendersi, schiacciato non dal confronto col re, ma da quello con quanto avrebbe sempre voluto essere, e che Leonida incarna.


[1] spiacenti, qui non tratteremo del film: qui si parla solo del fumetto! Ma contiamo che i prodi di Cinematografia Patologica prima o poi capitino sulle rotte di Snyder.
[2] In realtà Miller è accreditato come co-regista per alcune scene di Sin City diretto per lo più da Robert Rodriguez; ma The Spirit è la prima opera cinematografica sotto il suo pieno controllo. Altro subdolo suggerimento per le recensioni ai patologici.
[3] ad esempio Tebe aveva dichiarato la sua neutralità, e perciò indirettamente appoggiava il Grande Re. 
[4] la battaglia del Capo Artemisio e le vicende che portarono alla Seconda Guerra Persiana sono
l’argomento di Xerxes, la nuova opera di Miller… destinata a uscire dopo il film tratto da essa (sic!)! Ovvero, non prima della primavera del 2014 se non oltre.
[5] non si può escludere che questo sacrificio fosse motivato anche da una ragione politica. La ritirata sull’Istmo avrebbe lasciato la città di Atene in balia del saccheggio persiano (cosa che in effetti avvenne), e Sparta non era stata coinvolta direttamente nella guerra di Dario. Insomma: forse (e sottolineiamo ‘forse’) Sparta doveva dimostrare ad Atene ed alleati che non si ritirava per dare un colpo mortale ai suoi alleati\avversari greci per poi trattare con i Persiani; doveva quindi mostrare di essere disponibile a un sacrificio per il bene comune. La malizia non sembri così cervellotica: subito dopo la sconfitta di Serse i due alleati divennero nemici, e sia Ateniesi che Spartani chiesero e ottennero in tempi successivi l’aiuto dei Persiani contro la città rivale.
[6] a solo titolo di esempio ricordiamo la versione di Breccia con protagonista Mort Cinder e la rivisitazione in chiave moderna di Wood ed Oliveira nel loro Gilgamesh.

Come sempre le immagini non mi appartengono, ma sono tratte da Internet, e qui sono solo a corredo dell'analisi. Questo blog tenacemente continua a non avere fini di lucro. 

mercoledì 13 novembre 2013

Il peso del Numero Uno




ORFANI #1 – Solo qualche riflessione

Tra pochi giorni esce il numero due di Orfani, la serie di Roberto Recchioni, Emiliano Mammucari e Franco Busatta. Atteso, (talvolta) odiato a prescindere e (spesso) altrettanto a prescindere celebrato, Orfani è stato sicuramente un evento, ma i suoi effetti si potranno valutare solo sul medio-lungo periodo.

Per ora qui riporto alcune mie notazioni sparse, e la “revisione” di un mio intervento a commento di una recensione apparsa QUI ... prima che l’uscita del numero due mi “costringa” ad ampliare il discorso.

Innanzitutto qualche spunto sul linguaggio del fumetto, che sembra essere giustamente una delle principali attenzioni di Roberto Recchioni.

In Orfani #1 non troviamo in nessun modo quello specifico bonelliano d’antan che vedeva la didascalia regnare sovrana nei cambi scena [1]: le didascalie sono
a. assenti;
b. limitate a una voce fuori campo di sapore apocalittico, simile a quanto visto ad esempio in Kingdom Come;
c. presentate come voce corale, alla 300 di Miller. O, se il paragone non è azzardato, a un narratore fuori campo al cinema. Resta solo da stabilire se la voce appartenga a uno dei protagonisti o a un narratore collettivo\oggettivo [2].
Il percorso iniziato su Ken Parker da Berardi e Milazzo anni fa, sembra quindi compiuto, benché perfino in casa Bonelli non si possa di certo considerare una novità [3] .

Più interessante sembra la struttura perfettamente bipartita dell’albo.
Invece che un montaggio incrociato, la sceneggiatura ha preferito una separazione netta tra il tempo-addestramento e il tempo-combattimento [4], creando così una soluzione originale per la gestione dei flash back.

Il registro linguistico usato dai personaggi non mi è parso una novità così dirompente.
Volendo ridurre all’osso, la novità è costituita due parolacce o dare del “lei” invece che del “voi” come nel dialogo postcoitale tra Colonnello e Dottoressa. Se l’asciutta essenzialità sembra l’obiettivo finale (meno parole, più peso alle immagini), c’è da lavorare ancora. Il modo di parlare degli Orfani-ragazzi sembra, come già notato da altri, particolarmente artificioso.
Diciamo che è un inizio, ma non è certo questa la rivoluzione che sembrava di poter intuire dalla campagna promozionale.
La lettura del primo numero mi ha suscitato poi alcuni dubbi sull’efficacia del prodotto finale, soprattutto in rapporto alle attese suscitate dalla detta campagna di marketing.

Innanzitutto la novità del materiale.
Non discuto sull’originalità: il mondo che conosciamo è fatto da meno di 100 elementi chimici, e si dice che tutte le storie nascano da 36 situazioni che si ripetono[5]. La vera abilità è quella di miscelare i diversi elementi, nella genesi di qualcosa di interessante: discutere se la storia abbia degli stilemi già visti è abbastanza ingiusto.
In questa polemica “originalità sì \ originalità no”, la sottocategoria “citazione sì \ citazione no” mi turba ancora meno: trovo la disquisizione su quanto sia vera citazione e quanto in realtà sia Zeitgeist e atmosfera comune, sterile e condizionata dalle preferenze di ciascun lettore. QUI e QUI Roberto Recchioni ha dichiarato la sua posizione: il resto sta nel gusto del lettore di accettare quanto detto dall’autore, condividerlo o respingerlo. [6]

La vera gran quistione è capire se, una volta individuato il target del destinatario, il menu cucinato per lui si è rivelato adatto e saporito.

Ogni serie, ogni albo, nasce con un pubblico ideale cui l’opera si rivolge.
Il problema, come per ogni prodotto, è identificare il target giusto. Vista la portata mediatica dell’operazione si poteva pensare che gli obiettivi, oltre alla mera sopravvivenza\rientro dell’investimento, fossero più ambiziosi, ovvero:
1. coinvolgere in una nuova serie i lettori che nel tempo hanno abbandonato per ragioni di disamore i titoli della Bonelli; come ricaduta più ampia, suggerire ad essi la trasformazione in atto della casa editrice milanese e convincerli a dare una nuova possibilità alle serie “classiche”, ovvero invertire quel fenomeno di emorragia di lettori che sembra colpire la Bonelli da anni.
2. attirare lettori che sono al di fuori del tradizionale bacino Bonelli o addirittura al di fuori del pubblico che legge fumetti, con la speranza che si affezionino non solo a Orfani, ma possano provare curiosità anche verso altri titoli [7].
E non fa male se nel frattempo, ci si fa leggere volentieri anche da…
3. i lettori-zoccolo duro della Bonelli, che sono quelli che “reggono la baracca” da anni.
Si tratta di tre pubblici molto diversi tra loro, quindi il rischio di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, e contemporaneamente scontentare tutti quanti è alto.
 
Come individuare il target giusto, quindi?
Talvolta gli autori usano la formula “questo è il fumetto che avrei voluto leggere io se fossi un lettore”: il target è dunque costituito da chi ha i gusti simili allo scrittore [8]. Target abbastanza chiaro… oppure no.
In realtà questo significa che il pubblico di riferimento nasce da una semplice operazione:
numero di persone che hanno i gusti dell’autore in base a ciò che vorrebbero leggere meno (quelli che non leggerebbero in nessun caso\ non leggeranno comunque fumetti + quelli che non leggerebbero mai\non leggeranno comunque fumetti Bonelli)
I tre elementi sono abbastanza chiari, ma non so in che misura quantificabili con precisione.
Scendendo nel caso del RRobe (la generalizzazione è evidente): non tutti gli amanti di Tony Scott, dei Videogames, del porno di un certo tipo, del kendo hanno voglia di leggere un fumetto. Anche se corrispondesse esattamente agli argomenti delle loro passioni. Semplicemente perché il medium fumetto non è la stessa cosa rispetto alla passione di partenza.
Fermo restando che Orfani, per ora, non è un porno di un certo tipo :-)

Si dirà che questo è un discorso troppo generico per avere una sua validità; anzi, che è banale nella sua ovvietà. Ok, ma visto che il pubblico-target numero 2. sembra quello più appetitoso per l’operazione, non mi pare così irrilevante.
Le scelte narrative di Recchioni su Orfani sembrano molto coerenti con i suoi gusti, così come emergono dal suo blog: non conosco personalmente Roberto, quindi mi fido del fatto che il suo personaggio pubblico corrisponda in gran parte all’uomo che c’è a riflettori spenti. Ma i riferimenti a Cameron, a Halo, ai Wildcats, a X-men di Claremontiana memoria… quanto sono attuali e interessanti per un pubblico nuovo?
Tranne i videogames, i titoli citati sono un riferimento per me, nato nel 1971. Non vorrei essere eccessivamente pessimista: ma quanto lo sono per un lettore più giovane o, per lo meno, per un lettore più giovane che non sia di nicchia?

Credo che Orfani, per lo meno al numero uno, riesca meglio come operazione di recupero dei Bonelliani delusi, più che attrazione per nuovi lettori che non hanno mai sfogliato un Bonelli.
Lo è perché non vedo un legame stretto tra videogames\cinema\quant’altro e fumetto, se non l’identità di trame e ambiente. Se gioco a uno sparatutto, come posso trovare la stessa adrenalina nella lettura di un fumetto? Se mi voglio immergere in un cinema spettacolare che mi trascini senza respiro, come posso sperare di ritrovare la stessa emozione nel cartaceo?
Il fumetto ha altro fascino, ha altra presa perché altro è il linguaggio del medium.

Inoltre, riprendendo ciò che ho scritto altrove, oltre ai problemi di fondo dell’intera operazione c’è quello specifico del numero 1.
Quale è il compito del numero 1, che è un compito più gravoso di un numero 2?[9]
Banalmente un numero 1 di una serie deve essere valido per sé stesso, ma soprattutto deve trainare la serie.
La domanda dunque è: Orfani 1 ci riesce? Secondo me no.

Che sia il numero 1 di un fumetto o di un telefilm (vista l'impostazione per stagioni ribadita dall’autore, credo che il paragone sia d'obbligo) deve attirare il fruitore presentando
a) un eroe talmente caratterizzato da essere una sicurezza (o al contrario una novità), comunque un catalizzatore. Per esigenze di spazio e di scelta narrativa, gli Orfani non sono così caratterizzati: paradossalmente emergono il soldato e la dottoressa, che sono dei comprimari. Ben fatti, che metteranno pepe alla vicenda, ma comprimari. Nei suoi limiti, anche il classicissimo Saguaro#1 aveva svolto degnamente questa funzione: è un uomo con un passato da scoprire. Poi può non piacere, e non si compra, ma non c’è dubbio che metta delle promesse di serie molto chiare.
Orfani non è la storia di guerrieri dal passato sconosciuto da scoprire: mancano delle tessere, ma potremmo accontentarci di quello che abbiamo nel numero 1.

Oppure
b) una situazione che "acchiappa". Insomma: una guerra contro gli alieni che distrugge mezzo mondo non è più la novità che può svolgere questo ruolo. Potrebbe farlo una guerra "strana", dall'andamento imprevedibile. Space Cruiser Yamato lo faceva, con la corsa contro il tempo. Qui non c'è. Non c'è il mistero, non c'è neppure il "e ora come va a finire?". Come detto sopra, volendo, la storia si può chiudere col numero 1: c’erano dei bambini sopravvissuti a una strage, ora i bambini sono divenuti guerrieri. Fine.

Oppure
c) un linguaggio fumettistico inaspettato, nel disegno o nei dialoghi. Qui il discorso è più problematico, e sembra che siano stati presentati come il nucleo dell'operazione proprio perché gli altri due punti non sono così forti (per lo meno nel primo numero).
Ho già detto che in questa sede il discorso del citazionismo, del già visto, del marketing etc. interessa tanto quanto (per lo meno non interessa me). A mio parere è ben più rilevante guardare a ciò che viene presentato come elemento innovativo della serie.


a. IL COLORE. Innanzitutto non credo che sia davvero un traino per l'acquisto di una nuova serie il fatto che sia la prima serie Bonelli a colori: il colore è una novità per Bonelli (anzi: per una serie mensile Bonelli), ma non è una novità assoluta. Semplificando: ottimo il lavoro sul colore, ma siamo sicuri che chi non leggeva Bonelli lo facesse **solo** perché i suoi albi erano in B\N?
Mi spiego: se si vogliono attirare lettori nuovi, il colore è qualcosa che si aspetta chiunque legga USA, chiunque guardi un film d'azione. Un po' come dire, seguendo una vecchia pubblicità: "il nostro caffè è tostato!". Ok, ma anche gli altri lo sono: il fatto che nessun altro lo dica ormai non è davvero quel di più.
Si risponderà: no, guarda, forse qualcuno non leggeva Bonelli **anche** perché era in B\N. Ok, ci sta di più, ma sposta altrove l’attenzione su ciò che è interessante per nuovi lettori. Insomma: il colore come condizione necessaria, ma non sufficiente per l’acquisto.

b. IL DISEGNO. Puntiamo sul disegno? Vogliamo attirare con disegni stratosferici e nuovi? I disegnatori dichiaratamente (e non potrebbe essere diversamente) cambiano quasi ogni mese per esigenze di pubblicazione. Non stiamo parlando una serie francese con cadenza annuale, e quindi una uniformità è impensabile sopra un certo livello. Oltre che sarebbe svilente per gli stessi disegnatori. Quindi un gradimento grafico deve essere conquistato numero per numero… e non può per questa ragione essere un punto decisivo.
Per quanto attiene ai nuovi lettori non va trascurato un altro aspetto: i Mangafan non amano la griglia Bonelli (né, in molti, quel tipo di disegni), anche se stemperata; i Coconiniani hanno altri parametri. I fan dei videogames e ancor di più quelli dei film hanno modelli visivi ben diversi. Insomma: la forza grafica della serie non può essere il traino principale, specie se si vuole fare una “campagna acquisti”.

C. I DIALOGHI. Innovazioni nei dialoghi? Come detto sopra il linguaggio di Orfani è ***solo in parte*** diverso da quello bonelliano, ma non è un'esplosione di gag o di dialoghi cool così ben scritti da essere la vera ragione per acquistare anche i numeri successivi.
Per chiarirci, non dico che i dialoghi siano scritti male: semplicemente non sono la ragione che, invece, mi farebbe comprare un nuovo fumetto di Ennis; ma è anche vero che Recchioni vuole e deve essere sé stesso, non vuole fare Ennis .

In conclusione: i tre aspetti sono in una fascia medio\alta, ma nessuna di esse è veramente un di più, non sono così travolgenti da attirare con forza verso il prosieguo dell’acquisto. Anzi: in alcuni casi sono un rischio.
Mi pare che il tentativo di innovazione sia stato fatto a metà: dovendo cercare di pescare tra tre tipi di pubblico diverso, si sono fatti dei compromessi che rischiano di non essere così decisivi.
Da un lato si esalta il vecchio lettore Bonelli, magari quello deluso, col colore (ti do' quello che non hai mai avuto), dandogli la certezza della griglia che presenta variazioni nel solco della tradizione.
Però poi lo si spiazza con qualcosa che non è Bonelli puro: ad esempio l'albo si legge troppo velocemente per un pubblico Bonelli, credo. Non ci sono gli "spiegoni". Non si da' al pubblico la sicurezza del conosciuto. Si dirà: lo scopo era innovare nella tradizione. Ok, ma è una cosa delicata. Secondo me c'è **troppo** per un lettore Bonelli e (vedi sopra) **troppo poco** per un non Bonelli.

Quello che secondo me serviva anche a questo numero 1 era un gancio forte che trainasse il lettore, vecchio o nuovo che sia.
Un gancio che può nascere da un personaggio forte (Dexter), da una situazione che acchiappa per le possibilità della sua evoluzione (Breaking Bad, Lost), da una innovazione nel linguaggio del medium (How I Met Your Mother). O da una combinazione di questi elementi (Misfits stagione 1). Gli esempi televisivi ci sono per le ragioni dette sopra.
In Orfani #1 questi ganci mancano. E non perché le cose siano viste o non viste.

Il vero problema è che Orfani 1 mette poche domande, non crea attese se non di bassa intensità (ancora una volta: a leggere molti commenti, è un mio problema, altri sono in fremente attesa dello sviluppo).
Anzi: salvo alcuni lanci necessari per non rispiegarli dopo e che generano ovviamente attese piuttosto deboli [10], non ci sono domande davvero forti per cui sia necessario continuare a leggere la serie alla spasmodica attesa delle risposte.
Gli alieni ci hanno attaccato? Va bene, sono cattivi. O sono invasori che hanno il pianeta in crisi. O sono un loop temporale. O vogliono conquistare il mondo. Tre quarti delle serie d'azione si basano su questo, sono tutte belle ipotesi, ma non necessarie.
I bambini diventano guerrieri? Ok, ma sono coerenti con i presupposti. Mi posso chiedere: "Se prima erano 7 perché ora sono solo 5?" (= "chi muore?"), ma la caratterizzazione, per esigenze narrative è talmente basica che questa domanda (e quella collegata: "A chi corrispondono i guerrieri?") è quasi superflua. Non ci si può affezionare ai personaggi per quanto visto nel numero 1, perché c'è troppo poco. Non possiamo quindi trovare l'impulso della "paura della tecnica Martin", ovvero "ma non è che quello **## di Rrobe mi ammazza proprio il personaggio che preferisco?????".
Ciò vale almeno per il primo numero. Si deve dare per scontato che nei numeri successivi le cose cambieranno, con pagine e dialoghi che si accumulano. Appunto: bisogna far arrivare il lettore al punto in cui si affeziona.

Altre domande come: "ma perché hanno aspettato 20'anni per la controffensiva etc etc etc", come già detto mi appaiono irrilevanti. Possono essere curiosità, ma non accendono (in me) la brama di sapere. Ce lo diranno poi, ma potrebbero anche non dircelo. Semplicemente è andata così.
Io sono un lettore di Martin Mystère, il regno dello "spiegone", ma non sento il bisogno che tutto sia chiaro in questo primo numero degli Orfani: le cose succedono, non c'era tempo per raccontarlo e basta. Che ha fatto Obi Wan Kenobi tra il l’ultimo duello contro Anakin e l’apparizione di Luke? Boh, cose. Se servisse, ce le avrebbero dette. Magari erano fighe, ma non servivano alla storia, quindi non ci sono.

Devo essere sincero: per me il numero 1 di Orfani è sostanzialmente una storia autoconclusiva.
Fatta bene o male non importa, in realtà. E' una storia che può anche rimanere chiusa. Tutte le domande sono un di più, gradevole, ma non necessario.
E questa è la sua debolezza intrinseca, perché costringe il lettore a dirsi: fumetto non male, come da tradizione Bonelli, ma devo fidarmi degli autori (se mi voglio fidare) per aspettare quando sarà davvero fighissimo (se lo sarà). A fare un atto di fede. E visto che vuole essere innovativo, cambiare le regole… avrebbe dovuto probabilmente farlo in modo più chiaro da subito.

[1] vedi QUI le mie riflessioni sull’uso della Didascalia in generale e QUI l’indice della disamina delle didascalie in Watchmen di Alan Moore.
[2] alcuni hanno commentato che la scena dell’orso è tratta da 300: come ha prontamente specificato l’autore, si tratta di un omaggio alla run Demone Orso dei Nuovi Mutanti di Chris Claremont e Bill Sienkiewicz. La didascalia da “voce collettiva” mentre i futuri orfani marciano, sembra invece un riferimento diretto a Miller (o a eventuali suoi modelli che non sono in grado di individuare). Nell’opera milleriana la voce “collettiva”, come ci dimostrano le didascalie alle ultime due doppie tavole, NON è quella di Delios.

[3] Caravan, Saguaro, Greystorm, Shanghai Devil solo per citare alcune delle serie\miniserie recenti della Sergio Bonelli Editore lo facevano pienamente, ma già in Dylan Dog #1 la didascalia esplicativa “texiana” era pressoché abolita.
[4] qua e là in rete si disquisiva su “ma cosa hanno fatto gli alieni nei dieci\vent’anni tra un momento e l’altro”. Per quanto ne sappiamo, potrebbero non essere passati che pochi mesi tra le due parti dell’albo: se la Terra ha sviluppato una tecnologia che permette il volo iperspaziale, perché non ci potrebbe essercene una simile che acceleri la crescita?
[5] le curiose 36 situazioni narrative di Polti, per cui rimando a questo link. Nota: come puro gioco possiamo dire che Orfani potrebbe rientrare nella situazione 3 (La vendetta che perseguita il crimine), nella  6 (Disastro), nella 9 (Audace impresa), forse nella 20 (Sacrificarsi per un ideale); sarà curioso vedere se la lotta contro gli alieni potrebbe configurarsi come una situazione 31 (Lotta contro un dio). O, più semplicemente e sulla scia di Queneau, se tutte le storie sono una rimasticatura dell’Iliade (il conflitto) o dell’Odissea (il viaggio), Orfani pesca da entrambe.
[6] QUESTO mio post sullo Zeitgeist dovrebbe chiarire la mia opinione in merito.
[7] non deve creare stupore il fatto che nella terza di copertina di Orfani non vi sia la pubblicità di Tex (vera colonna portante della Bonelli) o di Nathan Never (il più vicino a Orfani per genere), ma di Dragonero, altro prodotto Bonelli presentato come novità rispetto alla tradizione di via Buonarroti.
[8]ricordo che da qualche parte, chissà dove e chissà se davvero, RRobe diceva che l'età media degli autori Bonelli è alta, e quindi fare il discorso “scrivo ciò che vorrei leggere” non vale a trovare nuovi lettori. Ma non sono riuscito a ritrovarlo nel mare magnum del web, quindi potrei fare confusione su autore e frase, e se sbagliassi me ne scuso preventivamente.
[9] nella mia esperienza personale se l’1 è efficace, un 2 mediocre o non a livello può essere accettabile; la crisi comincia col 3; un numero 1 meno che efficace e interessante produce un abbandono quasi immediato. Non sono un campione attendibile, ovviamente, se non per quanto riguarda me stesso J
[10] il vaccino per sopravvivere sul pianeta è discutibile come impostazione (l’iniezione), ma è una trovata narrativa che genererà quasi sicuramente una sequenza - vedi lo stesso ruolo nel recente After Earth.

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