venerdì 15 giugno 2012

FIDA DIDA 7 – DIDASCALIE E ASSOLI (meno 75.2 o 0.1 al BigT)



Il nostro percorso volge alla fine.
Tecnicamente questo è l'ultimo dei diversi usi della didascalia che Moore ci presenta nei diversi albi di Watchmen. L'ultimo uso riguarda qualcosa di simile alle didascalie, ma che tecnicamente (e due!) è un dialogo.

Cosa analizzeremo, oggi? Ma le didascalie del capitolo IV, l’albo dell'assolo del Dottor Manhattan.

La situazione narrativa è questa: il Dottore è su Marte (Jon Osterman come John Carter), con una vecchia foto, l'unica foto rimasta di lui prima della trasformazione.
E pensa.
Le didascalie sono la trascrizione del suo pensiero.
Fine.
Semplice, e “abituale” nel mondo del fumetto.

Moore è abituale? Banale?
Ovvio che sì, certo. I suoi fumetti comunicano in modo comprensibile, quindi attinge necessariamente a moduli e modelli comuni alla gran parte dei lettori. La maggior parte della produzione di Moore (e non potrebbe essere diversamente) è nella linea del codice fumetto.
Moore ha innovato, ma per lo più lo ha fatto nel solco della tradizione, sfruttando al massimo e in modo nuovo stilemi già esistenti.

Però in Watchmen anche la banalità, come usare la didascalia per raccontare i pensieri di un personaggio, diventa “speciale”.
Cosa rende “speciale” quest’uso della didascalia?
Il fatto che Moore non si limita a usare la didascalia per riportare i pensieri del Dottore. La didascalia è un espediente per rappresentare l'irrapresentabile, l'inconcepibile: la percezione del tempo che ha Manhattan.


Il Dottore percepisce, vive contemporaneamente tutti gli istanti del tempo in cui è vissuto. La Quarta Dimensione (quella di cui abbiamo parlato in questo postprecedente e su cui si torna in From Hell) è qualcosa di diverso per lui rispetto a noi.
Noi viviamo attimo per attimo, il nostro solo modo per viaggiare nel tempo è con la memoria, nel passato, rivivendo gli istanti in cui siamo stati presenti.
Anche il Dottore non fa viaggi nel tempo, ma lui non è immerso in un flusso unidirezionale come noi. Lui non rivive con la memoria: lui vive tutti i suoi istanti insieme.

Come avete visto nella mia confusa descrizione, il vivere nel tempo di Manhattan è alieno da noi, dal nostro modo di procedere, di concepire, di narrare. Moore si è quindi trovato nella difficoltà di raccontare questa percezione: usando un codice puramente verbale forse si può suggerire, ma se occorre visualizzare con immagini (e il fumetto è narrare per immagini e parole) i problemi si moltiplicano.

E infatti, non essendo possibile una rappresentazione multi temporale, quando deve fare sequenze più propriamente narrative Moore deve ricorrere (anche in quest’albo) a una più banale sequenza di flashback. Di più sembrava difficile si potesse fare.
Ma quando si passa alla sequenza riflessiva, all’espressione della propria interiorità, la carenza di possibilità grafiche porterebbe a ciò che si deve evitare nel fumetto: dire che sta accadendo qualcosa, invece che farlo vedere.

Così Moore ha sfruttato qualcosa che già esisteva (la didascalia-pensiero) in modo diverso. I flashback narrativi con le immagini rimangono lì, necessari. Ma la vera novità sono le didascalie riflessive, in cui i diversi pensieri sono relativi a diversi tempi, coesistenti.
Si potrà obiettare che noi leggiamo questi pensieri, queste percezioni, in sequenza, uno dopo l’altro, e che potremmo ipotizzare che il Dottore ha “visioni” in sequenza del passato e del presente, più che una percezione della sincronicità. Ma il limite è la nostra modalità di percezione, e di conseguenza la modalità di rappresentazione attraverso un medium. Viviamo attimo dopo attimo, i nostri media sono impostati sul tempo che scorre.
E così, attraverso loro, possiamo avere una intuizione, un assaggio di ciò che percepisce, di come pensa Manhattan. Nei limiti in cui un uomo può leggere e raccontare il modo di pensare di Dio.

C’erano alternative?
Ovviamente sì, forse, probabilmente, ma non mi vengono in mente!
Sicuramente sarebbe apparso quasi ridicolo l’uso delle altre modalità di espressione del pensiero nel fumetto, ovvero il balloon con pipetta a bolle o la frase scontornata e “galleggiante in aria”.
La seconda modalità prevede una invasione dello spazio disegnato abbastanza forte, e nella mia (limitata) esperienza lo ho visto utilizzato  per lo più per singole frasi e per effetti come la telepatia, più che come espressione del proprio pensiero in un soliloquio.
La prima modalità è ugualmente invasiva, e con un gusto più retrò e di livello “più popolare”. Watchmen è immerso negli anni ’80, e fumetti paralleli (Ronin e Dark Knight Returns di Miller, solo per fare un esempio di fumetto di alto livello pressoché contemporaneo) hanno fatto accettare la modalità didascalia-pensiero come innovazione più “adulta”, “sperimentale” (se queste parole non fossero ambigue in testi che si rivolgono a un pubblico più ampio possibile).

In ogni caso, questo IV albo è l’unica occasione per raccontare pensieri in tutta la saga di Watchmen. Le didascalie, lo abbiamo detto altrove, trascrivono scritture, frasi, mai pensieri.
Il pensiero è qualcosa di chiuso in ciascun uomo, tranne che per Manhattan, che è ormai diverso dall’uomo.
Il messaggio che siamo soli, l’idea dell’umanità per Rorschach, trova la sua visualizzazione più discreta, ma più chiara, proprio in questa assenza di lettura dei pensieri altrui.
La chiara banalità del nostro vivere.

PS. Il vero grande dubbio che mi riprende ogni volta che leggo Watchmen è questo: ma se il Dottor Manhattan vive contemporaneamente tutti gli istanti, come può non sapere chi sia il colpevole, che Laurie su Marte gli farà cambiare idea su una cosa importante etc?
Due le risposte: non si può pretendere troppo anche da Moore è la prima. Si è inventato una “nube di tachioni che risalgono il tempo” che confonde le percezioni di Manhattan, e che fa una sorta di “interferenza” tra Manhattan del “presente” e i Manhattan del "futuro". Soluzione debole, simile al “blocco temporale di alcuni secoli” ideato da Isaac Asimov ne “La fine dell’Eetrnità”. Niente di più che un escamotage narrativo per permettere a noi la narrazione.
La seconda mi piace di più, anche se viste le posizioni del Bardo di Northampton sul “parlare di Watchmen” resta a livello di ipotesi: il rapporto tra il Dottor Manhattan e Laurie ricalca in alcuni aspetti quello esistente tra V ed Evey in V for Vendetta. Pur essendo una sorta di superuomo, V ha una pianificazione del futuro molto simile a quella che potrebbe avere Manhattan. V ha previsto tutto, e in questa prospettiva “educa” Evey. Manhattan su Marte, tachioni o non tachioni, dovrebbe già sapere quale sarà l’evoluzione di Laurie e del mondo, e quello che fa è a uso e consumo di quelle creature limitate che sono gli esseri umani.
Forse il Dottore sa tutto, e si limita a far finta di non sapere niente, come nella canzone di Dylan che fa da epitaffio al primo albo (con le opportune differenze). Solo così può permettere agli umani di vivere le loro vite, per essere quella “forza imparziale e del tutto indifferente” che Nixon spera sia dalla parte “giusta” in caso di guerra.
(e se ne volete sapere di più, leggetevi il mio vecchio ma dorato articolo su Watchmen vent'anni dopo, Lavieri, 2006, a cura di SmokyMan)

Le immagini sono qui per servire da base per l’analisi, e sono tratte da Internet o da Moore-Gibbons, Watchmen\Sotto la maschera, I Classici del Fumetto di Repubblica Serie Oro 26. Copyright degli aventi diritto.

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