martedì 23 agosto 2011

ZOAT! Time is a four letter word (meno 83.61 al BigT)






"Il fumetto è per bambini. Quindi non si dicono le parolacce, o i bambini si turbano".

Ok, è molto, molto retrò, come frase. Eppure sono due concetti sottintesi a tanta produzione a fumetti e nei cartoons.

Non sono qui per discutere come il fumetto ***possa*** essere per bambini, ma ***non sia obbligatoriamente*** per bambini. 
Lo do per assodato, e spero lo facciano anche i miei otto lettori manzoniani.

Se il fumetto non è per bambini, ciò non significa che crolli anche la seconda frase. Ovvero che i bambini (anche quelli diventati adulti) potrebbero trovare sgradevole leggere le parolacce in un fumetto. Le parolacce sono "brutte parole", che i "beneducati" non dicono.
O limitano a rari momenti, ben definiti e tollerati.
Ira.
Disperazione.
Sarcasmo.
Incontri tra amici in cui prevale lo sfottò, l'allusione sessuale, il pettegolezzo.
Etc.

Ora: nei fumetti ci possono essere parolacce, anche se il fumetto è per adulti? In teoria sì, in pratica ce ne sono abbastanza poche. E concentrate nei dialoghi che servono a indicare ira, disperazione, sarcasmo etc.

Ma nella realtà funziona proprio così?

Ovviamente posso far riferimento alla mia esperienza e a chi mi circonda. Quindi il campione potrebbe essere falsato. Ma sono io a scrivere fumetti, e questi non possono che essere (in parte) lo specchio della mia vita.

Io non dico tante parolacce. Anzi ne dico tantissime.
Contraddizione? Beh, dal mio punto di vista no.
Cosa è una parolaccia? Un apostrofo nero tra le parole "Vaffa" e "ngulooooo"?
O una qualsiasi parola che diventa parolaccia per la forza emotiva che mettiamo in essa?
Lascio ad altri la dimostrazione della seconda opzione.

Io la dò per scontatamente vera.
(Ehi!, mi sto evitando tante discussioni linguistiche, oggi!).

Quale è la conseguenza di ciò? 
La prima è che ogni parola può essere una parolaccia. Dalla femmina del verro ai testicoli, a svariati disturbi psichiatrici.
La seconda è che nessuna parola, per se stessa, è una parolaccia. Perfino il "lazo" della canzone di Armando de Razza.

Quante volte, in situazioni rilassate, usate la parolaccia decontestualizzata, senza alcun intento di insulto? Non con il vostro capo o con la vostra zietta anziana, ma tra amici, tra amanti, tra colleghi con cui c'è una minima frequentazione. Senza voler dire parolacce.

Io lo faccio spessissimo.

"Passami quel cazzillo". "Quella è una figona pazzesca". Etc., etc. etc.
Parolacce senza intento di parolaccia.

"Sì, ok - direte voi - ma che c'entra? Va bene che hai detto che Daniel diceva molte parolacce, ma che c'entra questo con i post precedenti sui dialoghi? Il dialogo di DanG.E.R. si basa solo sulle parolacce?"

Beh, no.
Anzi: benché avessi in mente un Daniel che dice molte parolacce, il nostro eroe le avrebbe dette per lo più nel senso visto sopra. 
Daniel avrebbe usato parolacce ma non per dire parolacce.
Pensate all'inizio di "Quattro matrimoni e un funerale": una sequenza di "cazzocazzocazzo!" non indifferente. Ma dire che i dialoghi del film abbondano in parolacce mi sembra eccessivo.
Immaginate di essere inseguiti a un tirannosauro affamato. In quella situazione a me verrebbe sulle labbra una bella sequenza di "cazzocazzocazzocazzo!". E quindi la ho messa, visto che nel promo di DanG.E.R, Daniel è inseguito dal detto, affamatissimo, sauro.

Poi, grazie alla cortesia di un amico, un autore importante di fumetti (MM, ma non BVZM :-p ) ha letto il promo, e come da mia richiesta, mi ha fatto le pulci.
Azz, è stato un momento insieme deprimente ed esaltante.
Deprimente perché sono emerse le piccole e grandi inesperienze della mia sceneggiatura. Cose che posso notare nei fumetti altrui, ma che è più difficile vedere nel proprio figlio, per quanto scarrafone esso sia.
Esaltante perché non erano obiezioni generali (mi piace\non mi piace) o filosofiche, ma tecniche, dettagliate e specifiche, di quelle che ti fanno imparare.

Il tutto per giungere alle parolacce.
MM mi ha spiegato che le parolacce, nella casa editrice dove lavora prevalentemente, si usano solo se motivate. E che la sequenza non gli sembrava troppo motivante per un uso ampio delle parolacce.
(E' da sottolineare come il gentilissimo autore, mi ha anche detto che mi stava prospettando il punto di vista suo e di come veniva comunemente inteso l'uso della parolaccia nella sua casa editrice, e che io potevo anche essere in disaccordo con lui… se non pubblicavo con quell'editore, ovviamente :-D ).

E qui la riflessione che vorrei proporvi oggi, e che si collega ai post precedenti.
("E finalmente!", dirà qualcuno)
Quello che per me era un tentativo mimetico, cioè di scrivere dialoghi come li avrei detti io nella quotidianità, secondo altri non era mimetico affatto. 
Era una scelta, come sempre nel fumetto, ma una scelta non abbastanza condivisibile.

C'è chi ha detto di fregarmene (vedi il mio disegnatore, che quando scrive usa molte parolacce anche lui).
Invece a me è sembrata un'obiezione su cui pensare. Non perché la parolaccia era in quel contesto eccessiva (sono un gran testardo, scusa M!), ma perché mi ha fatto riflettere ancora una volta sul codice fumetto.

Spiego.
Ci siamo detti che il fumetto è un medium di riproduzione della realtà, ma che si tratta di un medium innaturale, più del cinema.
Però con il cinema condivide un aspetto: i personaggi non parlano come avviene nella quotidianità ai loro equivalenti reali. Un avvocato sullo schermo non parla come un vero avvocato in un'aula di tribunale (o al ristorante, o davanti alla tv).
Da "Peste!" a "Ezechiele 25,17" i linguaggi di cinema e fumetto usano dei codici che sono loro propri. Creano aspettative che sono tipiche del medium.
Un esempio: il bruttino "Lanterna Verde". 
L'ho visto in castellano, quindi qualcosa me la sono persa. Ma il film aveva alcune pecche dal punto di vista della classica costruzione della storia e dell'uso del linguaggio dei film d'azione supereroistici.
C'era qualcosa che "stonava".
In particolare c'è una scena del training di Hal Jordan, appena divenuto LV. E' su OA, un addestratore di LV gli insegna come si usa l'anello, modello sergente Hartmann o, meglio Louis Grosset Jr.
Il detto istruttore crea un piccolo sole che si sta per pappare Jordan. Poi lo salva, ma lo sbatte a terra e gli dice "La gravità è una puttana" (tradotto dal mio precario castellano).
In una scena clou del film, Hal usa lo stesso trucco per vincere un nemico (cioè usa la gravità del sole)… ma non usa la stessa frase.
Sarò un paranoico strutturalista, ma se guardate l'80% dei film d'azione di Hollywood, la frase "mitica" usata nella prima parte del film per indicare una sconfitta (o un insegnamento) ritorna nel finale. Prima era la lezione da imparare, poi è la lezione imparata. 
Si ascolta da "bambini", si pronuncia quando si diventa "adulti".
Fa parte delle regole del dialogo cinematografico: le battute sono scritte in una lingua verosimile ma non vera, esattamente come (già detto altrove, no?) esiste il "doppiaggese", un modo di rendere il linguaggio usato nei film anglosassoni in italiano, che non è e non vuole essere il linguaggio che usiamo quotidianamente. 
Insomma: nei film i personaggi parlano con un linguaggio che si usa solo nei film e che sembra linguaggio quotidiano e vero… ***solo nei film***.

Il fumetto, allo stesso modo, ha i suoi codici di dialogo. 
La prima banale caratteristica è che spesso i personaggi si chiamano continuamente per nome anche quando sono face-to-face (cosa che non accade nel cinema o nella realtà). 
Poi che usano frasi ultrasintetiche (tranne in Martin Mystère) ed essenziali. 
E anche che hanno dei tormentoni che valgono nel fumetto, al cinema, tra i comici della tv, ma che quasi nessuno usa con tanta frequenza ("Sono il migliore in quello che faccio", "Giuda Ballerino!", "Hulk spacca!"...).

E, infine, le parolacce si usano solo quando servono. 

Non basta un "cazzo" in una vignetta o un "vaffanculo" a tavola sei per dare l'idea di verosimiglianza del linguaggio.
Perché il linguaggio del fumetto non è mimetico. Alla fine della fiera: nel mondo reale non sarebbe realistico.
Può essere verosimile, ma solo nei limiti della verosimiglianza del codice del fumetto.
E quindi non c'è tempo nelle tavole per fare un dialogo così rilassato, un dialogo "inutile" nel senso che non dà informazioni, come sono tanti nella nostra quotidianità, in cui mettere parolacce-nonparolacce.
(Nella realtà i dialoghi apparentemente "inutili" dal punto di vista delle nuove informazioni date, sono utili: servono a stabilire\confermare una relazione).

Quindi perché "Zoat!" nel titolo?
Perché una delle opzioni sulle parolacce che doveva usare Daniel era quello della parolaccia inventata.
Non è una mia invenzione, per carità. Judge Dreed, come figlio prediletto di 2000 AD, aveva già le parolacce inventate. 
Ma mi piaceva riprendere l'idea della parolaccia del futuro.
Un po' per il rischio censura, un po' per giocare con la censura, un po' perché essendo così "sentite", le parolacce invecchiano rapidamente e ne nasce ogni giorno una nuova. E le vicende di Dan non sono ambientate ai nostri tempi (salvo rara eccezione).

La mia scelta di "Zoat!" voleva essere ironica. Era un po' il giochino da bambini di far pronunciare più volte e velocemente la frase "Nato scoglio" al compagnetto meno scafato.
Questa scelta ora è divenuta secondaria: il concetto da sviscerare, la decisione da prendere, non è sul tipo di parolaccia da usare (alla fine sono intercambiabili, una volta che si sceglie di usarle).
La vera scelta è se usare, e come e quando usare le parolacce.

Ma in un momento in cui il progetto di DanG.E.R. sembra destinato a un rinvio (sine die?) per i soliti rischi vari ed eventuali del fare fumetto, questa può essere una riflessione più generale, che prescinde dalla realtà più contingente.

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